Nel calcio italiano esiste un paradosso che si ripete da decenni: abbiamo prodotto alcuni tra i più grandi talenti della storia, ma continuiamo a inciampare nel futuro. La crisi del nostro calcio non è solo nei risultati — due Mondiali consecutivi mancati, club lontani dai fasti europei, settori giovanili in declino — ma in una miopia sistemica, una resistenza quasi patologica al cambiamento. E tra le vittime illustri di questo sistema bloccato c’è lui, Roberto Baggio, il “Divin Codino”, l’uomo che ha saputo incantare milioni di tifosi con il pallone e che ha cercato, inutilmente, di riscrivere le regole del gioco anche fuori dal campo.
Nel 2010, la Figc chiama Roberto Baggio a ricoprire un ruolo simbolicamente potente: Presidente del Settore Tecnico. È la prima volta che una leggenda del campo viene messa in una posizione strategica con la promessa di riformare profondamente il modo in cui si insegna e si sviluppa il calcio in Italia. Baggio ci mette anima e competenza. Studia, ascolta, osserva, gira per centri sportivi e parla con chi il calcio lo vive dal basso. E poi presenta un progetto. Un documento dettagliato, strutturato, incentrato su una nuova filosofia formativa: più tecnica individuale, meno tatticismo ossessivo, più libertà creativa e meno gabbie sistemiche. Un’idea moderna, ispirata ai modelli vincenti di Spagna, Germania e Olanda. Un manifesto per un nuovo calcio italiano. La risposta della Federazione? Il silenzio.
Quel documento non venne mai nemmeno discusso. Nessuna commissione, nessun incontro, nessun tavolo di lavoro. Dopo pochi mesi, Baggio si dimette, deluso e amareggiato. In una breve dichiarazione disse tutto ciò che c’era da sapere: “Mi hanno lasciato solo”. E il calcio italiano ha perso una delle sue occasioni più clamorose per voltare pagina. Per capire la portata di quell’errore, basta guardare dove siamo oggi. I giovani italiani che emergono sono spesso frutto di contingenze, non di un sistema virtuoso. I vivai faticano, le idee languono. La Serie A resta spettacolare ma antiquata, più laboratorio per tattici d’assalto che per maestri di talento. E l’Italia che nel 2021 ha vinto l’Europeo, lo ha fatto con un gruppo già rodato, più per alchimia che per un rinnovamento strutturale.
Il problema è sempre lo stesso: mancano visione, coraggio, investimenti veri nella formazione. E soprattutto mancano le persone disposte ad ascoltare chi ha davvero qualcosa da dire. Il calcio italiano è un gigante stanco che continua a vivere di nostalgia. Ma la nostalgia non produce futuro. Roberto Baggio aveva offerto un’occasione concreta di rigenerazione. Non chiedeva potere, solo attenzione. E invece è stato trattato come un’icona da museo, non come un innovatore. Forse perché in Italia la memoria è più comoda del cambiamento. Oggi, più che mai, ci servirebbe il coraggio di rileggere quel progetto sepolto. Non per rispetto a Baggio, ma per amore del calcio. E per dare ai nostri giovani la possibilità di imparare da chi ha vissuto il calcio con il cuore, la testa e i piedi.