Refugee teams è più di un progetto sportivo: è una promessa mantenuta ogni volta che un pallone comincia a rotolare tra ragazzi che arrivano da storie lontanissime e si scoprono compagni di squadra. L’iniziativa della Federazione Italiana Giuoco Calcio, costruita e coordinata dal Settore Giovanile e Scolastico, nasce per favorire l’inclusione attraverso il calcio nelle strutture del Sistema di Accoglienza e Integrazione, nelle comunità di alloggio e nelle case famiglia diffuse sul territorio nazionale. Dietro un nome semplice, “Refugee teams”, c’è una regia federale, un format educativo e sportivo, una rete di tecnici e partner che trasforma il campo in un luogo di cittadinanza attiva.
Refugee teams, l’idea che diventa metodo
Quando si racconta Refugee teams, la prima tentazione è cedere all’emozione dei volti e dei gol. Eppure il cuore del progetto è metodico: la FIGC definisce obiettivi chiari, che vanno dall’inclusione sociale alla promozione di comportamenti eticamente corretti, fino alla consapevolezza del valore dell’attività fisica sulla salute e sullo sviluppo sociale. L’educazione passa dal gioco e torna al gioco, perché il calcio è linguaggio comune prima ancora che competizione.
L’architettura del programma è esplicita: attività gratuite, svolte da tecnici qualificati, assicurazione infortuni a carico FIGC, invio di materiale sportivo, supporto per gli impianti e sinergie con le società del territorio. Non sono dettagli organizzativi: sono il telaio che permette a centinaia di storie di intrecciarsi.
Il torneo: il ritmo del 7 contro 7 che accende relazioni
Il torneo di Refugee teams non è un semplice calendario di partite. È stato pensato per esaltare la dimensione educativa tanto quanto quella tecnica. Le gare si disputano in formula 7 contro 7, due tempi da 20 minuti, con la possibilità di adattare il format a 6 contro 6 o 8 contro 8 e di allungare i tempi a 25 minuti quando serve favorire la partecipazione e il flusso del gioco. È una flessibilità voluta, che rende il regolamento uno strumento per includere e non per escludere.
La struttura a raggruppamenti locali o regionali, con partite di sola andata e, dove possibile, fasi di andata e ritorno, fa sì che il torneo sia sostenibile e vicino alle comunità. È un calcio cucito addosso ai partecipanti, non il contrario.
Dalla formazione al campo: crescere “dentro” il calcio
Refugee teams non si limita a offrire minuti di gioco: costruisce competenze. La FIGC mette a disposizione corsi “Grassroots Livello E” per ragazzi e operatori, con percorsi dedicati anche a istruttori e dirigenti dell’attività di base. La formazione interna per i referenti del progetto e quella esterna per chi vive il campo ogni settimana compongono un ecosistema in cui il sapere tecnico, quello psicologico e quello educativo si parlano.
L’idea è chiara: coltivare non solo calciatori, ma persone che dentro al calcio trovino un luogo sicuro per esercitare leadership, rispetto, autodisciplina. E, soprattutto, prendere la strada più lunga dell’educazione, quella che lascia tracce oltre il fischio finale.
Il lessico della cura
Non basta aprire un cancello d’erba sintetica per fare inclusione. Refugee teams inserisce nella propria grammatica parole che, nel calcio giovanile, significano responsabilità: “svolgimento di attività sportiva gratuita”, “attivazione assicurazione infortuni a carico FIGC”, “presidio medico per i partecipanti”. Dalla dotazione di materiale sportivo ai viaggi per le fasi nazionali, tutto concorre a dire ai ragazzi che il loro tempo ha valore e che le istituzioni se ne fanno carico. Anche questa è educazione civica, solo che si svolge al ritmo di un passaggio filtrante.
Coverciano come traguardo simbolico: il Grassroots Festival
In cima all’anno, il progetto si intreccia con uno dei luoghi-simbolo del calcio italiano. Un numero selezionato di centri d’accoglienza partecipa infatti al Grassroots Festival a Coverciano, con viaggi, vitto, alloggio e presidio medico garantiti. Arrivare lì non è soltanto un premio sportivo: è l’esperienza di varcare un cancello che, nella narrativa di tanti adolescenti, apparteneva ai sogni altrui. La geografia dell’inclusione passa da Firenze e dice a voce alta che ogni percorso merita un palcoscenico degno.
L’alleanza col territorio: dove i club diventano casa
La forza di Refugee teams si vede nelle connessioni. Il progetto non vive in una bolla, ma nel tessuto delle società dilettantistiche che mettono a disposizione impianti, tecnici, volontari. Laddove possibile, i giovani vengono tesserati nelle società del territorio e inseriti in squadre miste con coetanei italiani: una scelta che fa abbassare la temperatura dei pregiudizi e alza quella della fiducia. Per i club, la collaborazione con i centri SAI può valere anche come progetto qualificante per ottenere lo status di “Club di 3° Livello”, spingendo così il mondo di base a investire con continuità nei percorsi sociali. È una leva virtuosa, che rende l’inclusione una competenza e non un gesto episodico.
Refugee teams dentro un quadro europeo di accoglienza
Se il campo è locale, l’orizzonte è europeo. Da maggio 2021 UEFA e UNHCR hanno stretto un protocollo di cooperazione per promuovere l’inclusione dei rifugiati attraverso il calcio, che ogni anno prende forma in iniziative concrete come la Unity EURO Cup, un torneo misto che schiera in campo rifugiati e giocatori delle comunità ospitanti. Nell’edizione 2025, organizzata nei Paesi Bassi con il supporto della federcalcio olandese, hanno partecipato 18 squadre, a conferma di un ecosistema che cresce e si rafforza. È un “noi” che oltrepassa i confini, e dà al progetto FIGC un contesto di senso e di relazioni.
Il ponte con Lega Pro: quando il professionismo guarda al sociale
In Italia, anche la Lega Pro ha scelto di spingersi oltre la testimonianza, promuovendo Integration League, un torneo misto e cofinanziato dall’Unione Europea con il supporto di UNHCR e Project School. Otto club di Serie C hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa, portando a bordo città e tifoserie. È un segnale preciso: la vocazione sociale del calcio non è un fuori programma, ma un capitolo centrale di un nuovo modo di essere club, aperti e responsabili. Refugee teams si muove in questo stesso solco, dialogando con chi nel professionismo sperimenta modelli replicabili di partecipazione.
I numeri che raccontano un Paese che cambia
Per capire perché Refugee teams sia necessario, basta guardare ai dati. Nel 2024, secondo Istat, le immigrazioni dall’estero in Italia sono state circa 435 mila, livello elevato nel confronto con il decennio precedente; nel biennio 2023-24, inoltre, gli ingressi di cittadini stranieri e gli espatri di cittadini italiani hanno segnato valori record dell’ultimo decennio. In parallelo, il Sistema di Accoglienza e Integrazione ha sostenuto nel 2024 circa 55 mila persone in percorsi di inclusione, con il coinvolgimento di circa 2 mila Comuni. In queste cifre c’è la platea potenziale di un progetto come Refugee teams, e c’è la prova che l’integrazione non è un concetto astratto, ma una politica pubblica quotidiana.
Dal primo controllo palla all’ultima foto di squadra
C’è un tempo in cui i ragazzi arrivano timidi e osservano il campo come si guarda un luogo sconosciuto. Poi, un tocco alla volta, cominciano a prenderselo. Refugee teams accompagna questo passaggio con scelte molto concrete: format locali o regionali per ridurre le distanze logistiche, tecnici formati per leggere bisogni e potenzialità dei partecipanti, percorsi paralleli di formazione per adulti e giovani maggiorenni. Il regolamento valorizza il fair play come criterio competitivo, mettendo al centro atteggiamenti, rispetto, collaborazione. Sembra retorica, ma è semplicemente un modo differente di assegnare punteggi e priorità: quando il comportamento diventa parte della classifica, l’agonismo incontra l’educazione.
Parole che diventano fatti: dal tesseramento alle sinergie sul territorio
Nel tempo, il progetto ha favorito il tesseramento di diversi giovani stranieri nelle società locali, nonché un’accresciuta collaborazione tra FIGC, sponsor e partner istituzionali. Sono dinamiche che trasformano l’evento in percorso: una volta stabilita la connessione, il ragazzo che ha iniziato con Refugee teams può diventare assistente allenatore, dirigente accompagnatore, addetto di segreteria. Le griglie di valutazione dei progetti premianti per i club considerano proprio questi elementi, dal numero di partecipanti ai corsi “Grassroots Livello E” alla partecipazione a eventi educativi e promozionali, segnando un cambio di paradigma nella governance del calcio di base.
Le storie dentro la storia: identità, ferite, appartenenze
A rendere unico Refugee teams è il suo orizzonte umano. Ogni allenamento è un lessico famigliare che si costruisce dal nulla. Si arriva da paesi diversi, si portano in tasca lingue e paure, e si prova a raccontarsi con un controllo orientato. La presenza nelle strutture SAI consente di incrociare percorsi di tutela e accompagnamento sociale con il desiderio di normalità tipico dell’adolescenza. Lo sport diventa sismografo delle piccole conquiste: arrivare puntuali, rispettare i ruoli, dare fiducia al compagno. Quando una finale si gioca a Coverciano, la fotografia non è solo un trofeo, ma un atto di cittadinanza tutta italiana.
Istituzioni in rete: quando i link diventano alleanze
Refugee teams vive in un ecosistema di istituzioni che rendono possibili quelle maglie miste. La pagina ufficiale del progetto della FIGC lo racconta con chiarezza, mentre i comunicati UEFA sulla Giornata Mondiale del Rifugiato ricordano che il calcio europeo lavora a un’agenda comune con UNHCR. A livello nazionale, i dati aggiornati del Ministero dell’Interno su sbarchi e accoglienza offrono un cruscotto quotidiano del contesto, utile a misurare bisogni e impatti. Nei fatti, ogni link è un frammento di cooperazione: federazioni, enti locali, terzo settore, club. Sono fili che, intrecciati, sostengono un progetto che mette al centro la dignità delle persone.
Dal campo al quartiere, dal quartiere al Paese
Il calcio non cambia il mondo da solo, ma può cambiare il mondo di qualcuno. Refugee teams porta il pallone nelle pieghe della quotidianità, e lì, in quel cortile di provincia o in quel centro sportivo di periferia, accade l’essenziale: si costruiscono relazioni. Le comunità ospitanti vedono e toccano con mano una partecipazione reale, fatta di piccoli impegni e grandi ritorni. Le amministrazioni locali, coinvolte tramite i progetti SAI, riconoscono nel calcio una leva di rigenerazione sociale. E i club scoprono che il capitale sociale accumulato da queste esperienze migliora anche l’ambiente di crescita dei loro atleti di sempre. È una partita lunga, che Refugee teams gioca con pazienza, investendo nelle competenze e nella continuità.
Refugee teams e la parola “futuro”
C’è una parola che ritorna spesso nel progetto: formazione. Formazione dei tecnici, dei dirigenti, dei ragazzi. È lì che si gioca il futuro. Perché i cicli sportivi finiscono, ma le competenze restano. Quando un ragazzo formato nei corsi “Grassroots” entra in un club con un ruolo definito, quando il suo tesseramento diventa la porta d’ingresso a campionati e tornei, quando il suo impegno dentro un contesto regolato da norme e responsabilità prende forma, allora il futuro non è più un orizzonte indefinito. È una settimana che si apre con un allenamento e si chiude con una partita. Ed è proprio questa normalità la vera rivoluzione di Refugee teams.
Perché parlare di Refugee teams oggi?
Perché l’Italia del 2025 è un Paese in cui l’incontro tra persone migranti e territori è esperienza quotidiana. Perché le statistiche ufficiali ci dicono che il flusso di arrivi e partenze ridisegna geografie e bisogni, e perché il sistema pubblico dell’accoglienza, dal SAI ai Comuni, chiede alle comunità strumenti per trasformare la prossimità in relazione. Refugee teams è uno di questi strumenti: misurabile, replicabile, capace di fare rete. E allo stesso tempo è una narrazione potente per chi guarda il calcio non solo come risultato, ma come bene comune.
Un invito aperto: come agganciare il progetto
Per i centri di accoglienza, l’adesione passa da un portale dedicato, con requisiti che garantiscono qualità e sicurezza, dall’impianto omologato alla presenza di tecnici con qualifiche riconosciute o con partecipazione almeno ai corsi “Grassroots Livello E”. Sono condizioni che tutelano i partecipanti e alzano lo standard delle attività. È un invito a trasformare i campi in luoghi affidabili, dove l’integrazione non sia un esperimento, ma un programma. Per le società affiliate, la collaborazione con i centri SAI è un modo concreto per saldare il legame col proprio territorio e crescere come istituzioni educative.
La partita che resta: responsabilità, cura, bellezza
C’è un istante, in ogni torneo, in cui l’arbitro fischia e il fruscio del pubblico si ferma. In quell’istante, i ragazzi si guardano: non sono più “ospiti” o “accoglienti”, sono una squadra. Refugee teams ha fatto il suo mestiere proprio lì, negli attimi di silenzio tra un’azione e l’altra, quando lo sport si fa lingua comune. La responsabilità delle istituzioni, la cura dei tecnici, la bellezza di un gol che arriva dopo dieci passaggi: tutto si tiene. E tutto lascia tracce. Perché il calcio, quando è davvero per tutti, smette di essere un sogno televisivo e diventa un luogo di appartenenza.



